admin On giugno - 18 - 2010


di Maurizio Cerutti

Possono i ricordi di un bambino di otto anni stamparsi, chiari e precisi nella sua memoria? Negativi fatti di colori e profumi, altri racconti e altre angolazioni… come la chiamiamo? Esperienza? O grottesco rullare della vita? Per me è un ricordo importante che cammina sul filo della freschezza di un bambino verso il delirio che può portare un evento rock. Vedo quello che arriva, non esistono (ancora) scelte o bivi da prendere e i miei ricordi non possono che ringraziare.

Firenze aveva rifiutato il benestare al concerto e la questione era diventata quasi politica: “Firenze ha detto no, Torino accetterà i barbari corruttori di giovani?”. Torino aveva accettato ed era arrivata La domenica: quella degli Stones e dei mondiali di calcio.

E quella domenica Torino è calda, afosa. Ed è molto diversa da quella che si lascia navigare oggi. Torino è una “città triste, grigia, che c’entra il rock?” come titolavano i giornali in quei giorni. È la Torino degli operai, non accogliente, dura. È una Torino che si prepara alla festa per la probabile vittoria dell’Italia in Spagna: striscioni, bare finte di cartone montate sul cofano delle macchine con la scritta Germania, coppe del mondo fatte in modo casalingo con scope e cartone.

Il cielo è infuocato, mio babbo mi porta in bici al mattino in Piazza d’Armi, il parco vicino allo Stadio. Ricordo la folla, i camping improvvisati sulle collinette e distese enormi di ‘sconfitte’, come le chiamo io, le siringhe abbandonate per strada che ancora oggi mi scioccano.

Avevo i pantaloncini corti blu e una maglietta bianca della Fruit of The Loom. La torre ‘fascista’ dello stadio comunale e la sua ombra proteggono le teste degli spettatori. Quanti saranno, 25mila, 50mila? Sono ombre di una generazione. “Sono i nostri figli che verranno al concerto, se li consideriamo tutti drogati allora è la fine” così dichiara Diego Novelli, l’allora sindaco di Torino. Un palco multicolore: “Non è il circo di Mosca, sono i Rolling Stones che arrivano a Torino”.

Per quel concerto si erano organizzati quattro campeggi gratuiti, un pasto costava due-tremila lire. Il circo dei Rolling Stones si spostava su 27 tir. Per procurare una pizza a Jagger i portieri dell’Hotel Jolly Ambasciatori di C.so Vittorio svegliano un pizzaiolo alle 5 del mattino. “Superato il problema della security, ho trovato una buona sistemazione locale, organizzatori efficienti e autorità favorevoli. In Italia oggi si è finalmente capito che il rock è un grosso affare, come il calcio, e non un demone da tenere lontano“. Parola di Bill Graham, il promoter storico che organizzò tutti i tour degli Stones di quegli anni.

Mick Jagger il giorno prima del concerto chiede la maglia numero 20 di Paolo Rossi, vuole fare una sorpresa al pubblico di Torino: Jagger azzecca il risultato finale della partita. Nel camerino dello stadio arrivano il Sindaco Novelli e Umberto Agnelli (allora Presidente della Gilera, lo sponsor italiano del tour) per consegnare le chiavi della città. Io intanto mi mangio porzioni mega di anguria.

Alle 15.53 iniziano: 15mila palloncini in volo e arriva Mick, pantaloni lunghi attillati rossi e bianchi urla “Ciao Torino!“, e attacca. “Let’s spend the night together”, “Start me up”, “Twenty flight clock”, “Just my imagination“, “Brown sugar“. Mick lancia secchiate d’acqua sul pubblico. “Beast of Burden”, e poi “Angie”, l’eco di una generazione. “Times Is On My Side” e l’arrivo di un’altra pietra miliare che mi si imprime nella memoria, “Jumping Jack Flash“.

Mick entra avvolto da una bandiera italiana e salta insieme a Ron Wood sulla piattaforma di una gru che sorvola il pubblico mentre parte “Satisfaction”. Mick Jagger ha detto “Quando sono sul palco ho la sensazione di essere un vecchio stripteaser, in ogni caso un oggetto sessuale” e io ho potuto vederlo. E su “You Can’t Always Get What You Want” la chitarra di Keith Richards è triste.

Alle 18 finisce il concerto, io esco dall’uscita 48.

Vivo i ricordi ancora adesso dopo tutto questo tempo, mentre il biglietto da 15.000 lire riposa nella bacheca. 

di Maurizio Cerutti

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