admin On luglio - 1 - 2011

VIDEO SOUND ART

Questo report lo potrei fare così: Inizio report-Lunga vita a questi nuovo entusiasmante e coinvolgente festival -Fine Report.

In questo modo  l’anno prossimo terrete gli occhi ben aperti e giungerete –muniti di Autan – ad Abbiategrasso, dove il primo fine settimana di luglio si è tenuto, nella scenografia incantevole del Castello Visconteo – questo festival di musica e di arti visive.

La cornice del castello è eloquentemente scenografica, e l’organizzazione impeccabile ha dato davvero il massimo, riuscendo a mixare generi completamente diversi, dalla “melancholia” di John Grant alla costruzione del suono di quel genio dell’elettronica di John Hopkins, e spostando poi l’attenzione del pubblico – eterogeneo e coinvolto – con delle proiezioni (non saprei meglio definirle) che hanno trasformato le mura trecentesche in uno spazio avveniristico.

Parlando, poco prima del festival, con il direttore artistico, Laura Lamonea, si percepiva un entusiasmo non comune, che quindi lasciava ben sperare nell’ottima riuscita di questo evento – come puntualmente accaduto.

Con Laura si è parlato di cosa si possa intendere per contaminazione della creatività, di come i generi non siano più strettamente delimitati da barriere precostituite, e di contaminazioni costruttive.

In Europa ci sono molti festival per giovani artisti, vero, ma altrettanto vero che in Italia tali festival sono spesso confinati in territori specialistici al limite della segretezza, confinati in studi di settore che poi ci si trova solo tra colleghi e si parla di poco o niente.

Il Video Sound Art  – sia per le scelte musicali che per la location che per le convincenti conferme artistiche – è invece riuscito a coinvolgere persone che altrimenti non si sarebbero mai incontrate: ed ecco gli onnipresenti hypster milanesi (che nella loro maleducazione hanno parlato per tutto il tempo), appassionati di musica elettronica, semplici curiosi che hanno approfittato di una gradevole serata estiva per sedersi al castello e assistere alle perfomance di motion graphics.

Sono stati infatti creati 2 contenitori nei quali i giovani artisti possono esprimersi.- La scelta è stata di richiamare nomi già affermati   quali Universal Everything, ManvsMachine e Dvein che espongono nelle gallerie più importanti al mondo ed e metterli a confronto con nuovi artisti.

Da un punto di vista musicale, venerdì è stato il turno del sempre coinvolgente John Grant che l’anno scorso ha pubblicato un disco, Queen of Denmark, alla cui realizzazione hanno collaborato i Midlake, consumato a furia di scola tarlo.

John si presenta sul palco trasandato come solo un americano sa esserlo, e inanella una serie di brani che sono coinvolgenti e – sarà la sera che arriva piano piano – meno tristi che sul disco.

Dal vivo Mr. Grant ha un piglio elettronico che sul disco non si poteva nemmeno immaginare, e alterna il pianoforte a un synth piuttosto leggero, ma comunque brioso.

Parla e racconta pezzi della sua vita in Michigan, sente quasi il bisogno di spiegare la genesi delle sue canzoni, ognuna delle quali è legata a una persona o a una determinata situazione.

Inizia con una struggente where dreams go to die, che quasi toglie il respiro, a cui fa seguito Marz, introdotta con una dichiarazione di amore al nostro…. Gelato (stracciatella e caffè), che non ha nulla a che fare con quello americano, sebbene a New York ci sia una filiale di una nota gelateria italiana.

Jesus hates faggots è (piacevolmente) inaspettata nel suo essere virata nel mondo dell’electro, un esperimento tentato e perfettamente riuscito.

John Grant non sapeva – non poteva saperlo – che Abbiategrasso è la patria delle zanzare, e appare infastidito da questi orrendi esseri la cui ragione d’essere sfugge a chiunque, finché non arriva l’angelo dell’autan e lo salva dalla sua tortura.

La chiusura – dopo aver presentato un pezzo nuovo che dovrebbe chiamarsi Vietnam – è sella meravigliosa TC and the honeybear.

Sabato 2 luglio, invece, l’atmosfera è completamente diversa: port-royal e Jon Hopkins.

I port-royal in questa rassegna non portano nessuno dei loro strepitosi visual, e questo è un po’ un peccato, un quanto la loro la componente visiva non solo è un aspetto importantissimo dei loro shows, ma avrebbe potuto inserirsi a pieno titolo in una rassegna dedicata alle arti contemporanee visuali.

E poi, eccolo, Jon Hopkins, che sale sul palco con un sorriso e una semplicità disarmanti, che – se non lo conoscessi – non ti aspetteresti quel che poi è stato il suo set.

Jon Hopkins è la seconda volta che lo sento (la prima fu all’Elita due edizioni fa) e due anni di differenza si sentono parecchio: Jon è molto più coinvolgente ed eclettico, tanto che passa da insides che è glitch puro alla poesia di  autumn hill.

  A un certo punto ci alziamo tutti dalle sedie e passiamo buona parte del set a ballare sotto il palco,  Jon si concede e ci concede un set indimenticabile, figlio di un festival che – alla prima edizione – ci manca di già.



di Marilù Cattaneo

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