admin On marzo - 16 - 2011

Stefano Bollani
Teatro Filarmonico
Verona, March 14 2011

english version –
Let’s pretend to be in a different world, a world made up of piano bar only. And, for a minute there, let’s also pretend to profane the “door with no expectation” of one of those clubs, a wooden, tired and stretched out entrance, witness of so many winter crusades against the very cold; let’s push strongly, wait my three please, its dampish thickness, similar to marron glace, and let us get involved in a humble warmth which seemed to be just waiting for us. 
One. Two. Three.
Keeping our eyes closed, the other four senses can drive us from now on, trying to fix the several details of this place.
Scent of wet cigar and dusty velvet. A light flavour of coffee, suffocate by the flowered one of the bathroom’s soap. A palpable aftertaste  of subtle alcohol, whiskey maybe. The friendly texture of the chipped edges of the counter, king in this night castle who has “seen incredible things”. The swoosh of the curtain leads us on a depopulate stage with a single, all embracing instrument: a lonely piano.
Almost immediately, a both concrete and colored sliding music wraps us, a sort of mysterious reign curled up in a soapy bubble blown out by a kid in the night, on its home’s terrace. A preliminary watercolor before painting the whole landscape: listening to Stefano, the piano player, while he gives life to its inner thoughts is like attending at the birth of a memory portrait. Simply: Art.
Without opening our eyes, we take a seat; those chairs are comfortable and soft, ready to receive a stooping back, which is always prepared to carry away these vagabond shoes. Through Fred Bongusto, reread with sharp-tongued irony, Paolo Conte, friendly teased, and Lelio Luttazzi, gently honored, ten fingers ten guide us along this (luckily) international one way: the piano’s hammers beat its strings according to a fast Brazilian rhythm, then an aerial American one, and after this a German eighteenth- century caprice comes ahead, it’s time for a rest, then an African basso continuo explodes from somewhere, without notice, with no line, stamped on the floor, clapped on the soundbox of a resigned instrument. A polyvalent musician, a stand-up comedian confides us old time stories in a husky whisper, memories of what we forgot, other us in different, drown worlds. A roaming citizen who breaks its national hymn and melts it with You can leave your hat on, America and Where is Zazà ( a Neapolitan, traditional song), shakes everything and finally serves this cocktail neat, just an olive, in a Martini glass. A man who bows his head while playing Morricone, and doesn’t jam on his music because of a kind of deep respect, a dowser which divining rod accidentally finds the dense mood of Ginger Rogers and Fred Astaire, hands able to extract the inner sense of this music while working on it as like as a craftsman shapes a piece of clay.
The jar is ready to hold our sadness, under two locked eyes. We finally can open them, when we sadly understand that we are in the beautiful but full, contemporary, dense populated setting of the Philharmonic Theatre of Verona, and not in that romantic, ancient, mysterious piano bar we used to be trapped in till a few minutes ago. Stefano smiles, sweaty, with several rounds of applause in its pocket, he cracks another joke then he sits down, nodding to himself.
We fall in love again, listening to a blue outlined, Swedish rock a bye babe, after a mystic cardinal red rainfall: he offers us lightness an suspension, a real pure, deep feeling.
Well, it’s time to go, I’m all alone and even Bollani is far away now. Aloud, I thank him, don’t care if he can hear me or not: thanks, Stefano, for carrying me in that smoking, shady club, tonight, that corner which is not mine one, not yours one, but everybody’s one, a sort of Eden with eighty eight meanings on a unique raw, black or white but never gray, as ordinary life can easily seem, but however. Long time no enjoying a first date with Miss The Music as much as the one you’ve already given me, instead.

by Silvana Soffia

italian version –
Facciamo finta di essere in un mondo alternativo, un mondo fatto di soli piani bar. E, per un attimo, immaginiamo di violare l’ingresso senza pretese di uno di questi locali, diciamo pure una porticina di legno stiracchiata e stanca, testimone di mille fredde crociate invernali per imprigionare il caldo tutto in una sola stanza; premiamo con decisione, al mio tre, contro la sua consistenza umidiccia, marron glacè, e lasciamoci avvolgere dalla penombra di un tepore umile, antico, un tepore che sembrava aspettare solo noi.
Uno. Due. Tre.
Occhi chiusi, ci facciamo accompagnare dai soli sensi, per registrare meglio i particolari che si sprecano.
Fragranza di sigaro bagnato e velluto polveroso. Leggero aroma di caffè, soffocato da quello floreale di sapone per bagni separati. Un retrogusto palpabile d’alcol discreto, whiskey. La consistenza amichevole di un bancone dai bordi scheggiati, signore incontrastato di un ecosistema che vive di notte, e alla notte se ne vedono molte, d’ogni sorta. Il fruscio intenso del sipario di un palcoscenico popolato da un solo strumento onnicomprensivo: un pianoforte solitario.
Quasi immediatamente ci avvolge una musica che è colore e forma insieme ma sfuggente, una specie di regno misterioso raccolto nella bolla di sapone soffiata una sera da un bambino, fuori in terrazzo. Un acquerello preparatorio, in previsione del dipinto intero: ascoltare Stefano, il pianista, mentre si diverte a dare vita ai suoi pensieri intimi è come vederlo nascere lentamente, quel ritratto delicato che racconta una sensazione, una tinta, un ricordo. Arte.
Senza tradire la magia di questa voluta cecità, ci accomodiamo; le sedie sono soffici e ammiccanti, già preparate alla forma sbilenca di una schiena curva, perennemente sul punto di andarsene via assieme alle sue gambe vagabonde. Attraverso un Fred Bongusto riletto e rivisitato con tagliente ironia, un Paolo Conte canzonato con misura e un Lelio Luttazzi omaggiato con umile delicatezza, dieci dita dieci ci guidano attraverso questo percorso che sarebbe un peccato se fosse solamente italiano, e difatti non lo è: i martelletti schiaffeggiano le corde conforme al ritmo serrato brasiliano, a quello più aereo americano, ancora a quello ordinato di un capriccio settecentesco tedesco, pausa, una percussione di basso continuo africana esplode dal nulla, senza preavviso, senza melodia, battuta a terra con il piede, e con le mani sulla cassa armonica dello strumento rassegnato. Un musicista polivalente, un cabarettista nato snocciola con voce bassa e rauca aneddoti di altri tempi, altri noi, in altri mondi, mondi sommersi, dimenticati. Un cittadino errante che frantuma l’inno del suo paese e lo mescola nello shaker assieme a You can leave your hat on, America e Dove sta Zazzà, poi agita bene il tutto e lo serve liscio, con oliva, in una coppa Martini. Un uomo che inchina Giù la testa ad Ennio Morricone e lo rispetta talmente tanto da raccontarcelo identico a quello che è, un rabdomante a caccia di emozioni il cui bastone si imbatte nel denso mood di Ginger Rogers e Fred Astaire, mani che ne estraggono il senso compiuto e lo rielaborano sapienti, come si fa con l’argilla.
Il vaso è pronto a raccogliere lacrime vere, sotto i nostri occhi ancora serrati. Li riapriamo solamente alla fine, quando c’è da piangere ad accorgersi di essere invece a Verona, nella per carità splendida cornice dello scintillante Teatro Filarmonico, però non soli, non negli anni quaranta, non in quel misterioso e magico piano bar in cui Stefano ci aveva portati. Lui sorride, sudatissimo e con le tasche cariche di applausi, s’inventa un’altra battuta delle sue, si siede, annuisce.
E ci innamora per un’ultima volta, con una ninna nanna svedese dal profilo carenato blu notte, dopo una pioggia mistica color cardinale: leggerezza e sospensione, sentimento puro.
Quand’è il momento di andarcene mi volto, attorno a me non c’è più nessuno. Nemmeno Bollani. Ad alta voce, lo ringrazio, non m’importa che non senta: grazie, Stefano, di avermi portato in quel locale fumoso e umbratile, stasera, quell’angolo di mondo che non è mio, non è tuo, ma di tutti, quell’eden dagli ottantotto significati tutti in fila, bianchi, neri e mai grigi come è invece, purtroppo, la vita quotidiana. Era da tanto che non avevo un primo appuntamento come si deve, con Madonna Musica.

di Silvana Soffia

Stafano Bollani - pic by Silvana Soffia

Stafano Bollani - pic by Silvana Soffia

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