admin On settembre - 9 - 2010

 

"La Solitudine dei Numeri Primi"

Mostra del Cinema di Venezia


Lido di Venezia

“La Solitudine dei Numeri Primi” – di Saverio Costanzo

I numeri primi sono divisibili soltanto per uno e per sé stessi, sono numeri solitari ed incomprensibili agli altri, proprio come Alice e Mattia, i protagonisti del romanzo di Paolo Giordano, che hanno emozionato schiere di giovani adulti (e non solo), esaltati al suo conseguimento del Premio Strega nel 2008.
Si perché “La Solitudine dei Numeri Primi”, raccontava così amabilmente l’essenzialità di silenzi e riflessioni private, di due personaggi atipici nella loro normalità a-sociale al punto che in molti, probabilmente vi ci saranno specchiati.
Ora quel ventennio di vita (dall’84) è diventato un film, per mano di Saverio Costanzo. E come al solito cresceranno critiche e consensi.
Una pellicola (magistralmente interpretata da Alba Rohrwacher, perfetta ed eterea come il suo personaggio e talmente impalpabile da risultare oppressiva psicologicamente ed intimamente sul finire del film, consumata da un tal tormento, anche fisico, per cui meriterebbe il premio come miglior attrice protagonista), dove il materialismo onirico del romanzo di Giordano viene estrapolato e rimodellato, coerentemente ma con momenti in dubbio, talora, e dove la meditazione sulla solitudine passa attraverso sguardi che sembrano pozzi in cui sciogliersi, una colonna sonora da manuale (firmata dall’ottimo Mike Patton) e dove le conseguenze di infanzie borghesi degli anni ’80, generanti, dal nulla e per nulla, orrende condizioni psicologiche, indirizzano verso al strada dell’horror (e si, è da ri-sottolineare, anche qui la soundtrack gioca a favore del film, con apici sensazionali e picchi emozionali tra sussulti di note e siparietti di canzoni perdute), e dove l’inconfessabile si materializza attraverso un recupero del passato, fatto, cinematograficamente, di flashback costruttivi e dolorosi sussulti empatici che il pubblico potrebbe rischiare di subire nell’osservare il decadimento psicologico di due bambini, meravigliosamente assorbiti l’uno dal proprio infantile ruolo imposto di giovane balia e l’altra di figlia modello da palesare agli amici di papà, fino a diventare vittime e carnefici di loro stessi, della società e della loro diversità. La stessa capace di renderli così umani e speciali persino nella loro astrazione.
Poi ci sono gli specchi, tanto amati da Costanzo, a metafora delle due anime autoriflettenti e così simmetriche tra loro, il desiderio adolescenziale di appartenere ad un gruppo per poi fuggirlo costantemente perché inadatti o meglio incompresi. Ma nessun pietismo o autocompiacimento accompagnano le due ore di film, sublimate dall’alternarsi preciso di momenti storici delle vite dei due protagonisti, talmente compenetranti da sembrare una sola con mille personaggi, raccontata di fila.
E poi c’è Torino, svelata all’inizio solo grazie all’accento dei personaggi, rivelata alla fine, tra nebbie, autunni sofferti e nevicate copiose, in un gioco di riflessi al finestrino di un taxi, c’è il dolore per il lutto e la perdita, ci sono gli errori di genitori assenti o onnipresenti, pressanti o lamentosi, le parole e le aspirazioni non dette di giovani che trovano nel lavoro la via di fuga dalla vita e dalle emozioni, gli sguardi persi atti all’astrazione, i muri invalicabili in menti contortamente difficili seppur geniali, c’è l’ambizione della scoperta e dello studio di sé attraverso quello degli altri, i sono i mostri dell’infanzia (e qui la piccola partecipazione di Filippo Timi nel ruolo di un truccatissimo clown, risulterà immaginifica, quasi felliniana e spaventosa nella sua funzione cinematografica) e la convinzione che le colpe dei padri ricadano sempre e puntualmente sui figli, anche se non volute, la forzatura corporale di fallimenti intimi, e, infine, ancora una volta, la musica: eterna essenza dell’intero film.
Fischi ed applausi da parte della critica, per un giovane regista già amato nel 2007 con “In Memoria di Me”, e ora alle prese con un piccolo, nuovissimo, e già cult, fenomeno letterario.
Impresa ardua, del resto.
Vince certamente la letteratura, con il dubbio, però, è da dire, che se si trattasse di una produzione cinematografica straniera, ora, tutti starebbero urlando al miracolo, probabilmente.
Ma questa è un’altra storia.

 


di Ilaria Rebecchi

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